approfondimenti

  • Fellini a Venezia

    Nel 1953 il presidente di giuria della 14a edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia è Eugenio Montale, tra i massimi poeti del Novecento, Nobel per la letteratura nel 1975.
    Tra i film in concorso 𝘐 𝘳𝑎𝘤𝑐𝘰𝑛𝘵𝑖 𝑑𝘦𝑙𝘭𝑎 𝑙𝘶𝑛𝘢 𝘱𝑎𝘭𝑙𝘪𝑑𝘢 𝘥’𝘢𝑔𝘰𝑠𝘵𝑜 di Kenij Mizoguchi, 𝘔𝘰𝘶𝘭𝘪𝘯 𝘙𝘰𝘶𝘨𝘦 di John Huston, 𝘛𝘦𝘳𝘦𝘴𝘢 𝘙𝘢𝘲𝘶𝘪𝘯 di Marcel Carné. Quell’anno il Leone d’oro, il premio più prestigioso che ancora si chiamava Il leone di San Marco, non fu assegnato, mentre ex aequo fu conferito il Leone d’argento a sei film, tra cui 𝙄 𝙫𝙞𝙩𝙚𝙡𝙡𝙤𝙣𝙞 di Federico Fellini “per la felice scoperta di un ambiente – la provincia italiana”, si legge nelle motivazioni.
    La provincia come cuore pulsante del Paese, come suo inconscio più profondo, le storie, i tipi e i luoghi della piccola borghesia come matrici più autentiche dell’italianità. Prima il cinema era di città o di campagna. Eugenio Montale e gli altri giurati colgono questa rivoluzione nel film di un regista riminese neppure trentacinquenne. E dopo il fiasco de 𝘓𝘰 𝘴𝘤𝘦𝘪𝘤𝘤𝘰 𝘣𝘪𝘢𝘯𝘤𝘰, accolto molto freddamente l’anno prima, arriva per Fellini finalmente l’apprezzamento della critica e quello del pubblico e, a ruota, il successo commerciale. Il film che nessuno voleva distribuire diventa un evento generazionale e Alberto Sordi, il cui nome neppure doveva figurare nelle locandine, l’attore italiano più richiesto.

    L’edizione del 1954 del Festival di Venezia è quella in cui esplode la rivalità tra Federico Fellini e Luchino Visconti, il Coppi e il Bartali, il Platone e l’Aristotele del nostro cinema. Visconti si presenta con 𝘚𝘦𝘯𝘴𝘰, sfarzoso e colorato, Fellini con 𝘓𝘢 𝘴𝘵𝘳𝘢𝘥𝘢, povero e in b/n. In concorso ci sono anche 𝘓𝘢 𝘧𝘪𝘯𝘦𝘴𝘵𝘳𝘢 𝘴𝘶𝘭 𝘤𝘰𝘳𝘵𝘪𝘭𝘦 di Alfred Hitchcock, 𝘍𝘳𝘰𝘯𝘵𝘦 𝘥𝘦𝘭 𝘱𝘰𝘳𝘵𝘰 di Elia Kazan, 𝘐 𝘴𝘦𝘵𝘵𝘦 𝘴𝘢𝘮𝘶𝘳𝘢𝘪 di Akira Kurosawa. Non vince nessuno di questi capolavori perché la statuetta, per un gioco di veti incrociati, se lo porta via un film non memorabile: 𝘎𝘪𝘶𝘭𝘪𝘦𝘵𝘵𝘢 𝘦 𝘙𝘰𝘮𝘦𝘰 di Renato Castellani. Lo scontro tra i tifosi delle due opposte scuderie, l’una capeggiata da Franco Zeffirelli, di granitica fede viscontiana, l’altra da Moraldo Rossi, assistente di Fellini e suo sesto vitellone, si accende quando tra i Leoni d’argento aggiudicati ex aequo viene annunciato anche 𝘓𝘢 𝘴𝘵𝘳𝘢𝘥𝘢 mentre 𝘚𝘦𝘯𝘴𝘰 rimane a bocca asciutta. E’ bagarre in sala e nei dieci anni successivi i due registi non si risparmieranno colpi, e non solo in punta di fioretto. Ma questa è un’altra storia e splendidamente l’ha raccontata Francesco Piccolo in 𝘓𝘢 𝘣𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘤𝘰𝘯𝘧𝘶𝘴𝘪𝘰𝘯𝘦.
    Con 𝘓𝘢 𝘴𝘵𝘳𝘢𝘥𝘢 inizia la leggenda di Fellini: il film fa incetta di premi fino all’Oscar nel 1957, il primo dei cinque vinti dal riminese.

    Fellini torna al festival nel 1955 con 𝘐𝘭 𝘣𝘪𝘥𝘰𝘯𝘦 e fu un clamoroso flop: a Venezia fu presentata, per volontà del produttore Goffredo Lombardo, una versione tagliata, ulteriormente ridotta nell’edizione distribuita nei cinema. Tra i pochi ad applaudire quello che resta uno dei film meno conosciuti di Fellini, un giovanissimo cronista: François Truffaut. E pochi anni dopo il critico, passato dietro la macchina da presa, si ricorderà di quella visione e nel suo esordio, I 400 colpi, gira una scena, quella dell’ottovolante, che ricorda una scena analoga presente nella versione veneziana del film ma tagliata successivamente.

    Fellini, deluso dall’accoglienza riservata a 𝘐𝘭 𝘣𝘪𝘥𝘰𝘯𝘦, aspetterà più di dieci anni per approdare di nuovo a Venezia e ci torna portando in dote 3 Oscar (𝘓𝘢 𝘴𝘵𝘳𝘢𝘥𝘢, 𝘓𝘦 𝘯𝘰𝘵𝘵𝘪 𝘥𝘪 𝘊𝘢𝘣𝘪𝘳𝘪𝘢 e 8½) e una Palma d’oro (𝘓𝘢 𝘥𝘰𝘭𝘤𝘦 𝘷𝘪𝘵𝘢): il 4 settembre 1969 è programmata l’anteprima, attesissima e lungamente annunciata, del 𝘍𝘦𝘭𝘭𝘪𝘯𝘪 𝘚𝘢𝘵𝘺𝘳𝘪𝘤𝘰𝘯. Ma non c’è due senza tre e così, per la terza volta, dopo 𝘓𝘰 𝘴𝘤𝘦𝘪𝘤𝘤𝘰 𝘣𝘪𝘢𝘯𝘤𝘰 e 𝘐𝘭 𝘣𝘪𝘥𝘰𝘯𝘦, un film di Fellini a Venezia viene accolto molto molto tiepidamente.
    Fellini tornerà a Venezia in altre due edizioni: con 𝘐 𝘤𝘭𝘰𝘸𝘯𝘴 nel 1970 e nel 1983 con 𝘌 𝘭𝘢 𝘯𝘢𝘷𝘦 𝘷𝘢: il primo rinoceronte felliniano che sbarca a Venezia, un secondo approderà al Lido nel 2021 ad annunciare l’apertura del Fellini Museum a Rimini.
    Oltre che per il festival, i legami del cinema di Fellini con Venezia sono tanti, a partire dal progetto mai realizzato sulla città lagunare che avrebbe dovuto far parte di una trilogia con Roma, unico film ad essere fatto, e Napoli, anche quest’ultimo rimasto a livello di trattamento. E poi abbiamo la Venezia del Casanova col suo carnevale, i suoi piombi, la sua Venusia. Ma questa è un’altra storia.

  • Fellini e Calvino

    Visioni d’Italia è il titolo provvisorio di un film che Federico Fellini non girò mai. Uno dei (tanti) progetti mancati, non tra i più noti. L’idea nasce a colazione da Canova, il caffè di piazza del Popolo: è il 1963 e, pochi giorni prima, Fellini ha ricevuto da uno dei maggiori intellettuali italiani del Novecento una lettera piena di ammirazione per 8½. Chi gli scrive è Italo Calvino, di cui il 19 settembre ricorre l’anniversario della scomparsa e che il prossimo 15 ottobre avrebbe compiuto 100 anni, ai quei tempi già affermato scrittore per aver pubblicato la Trilogia degli antenati e raccolto e riscritto per Einaudi duecento Fiabe italiane. E proprio da questi racconti popolari i due, in quel loro primo incontro, decidono di trarre un film, da cui sarebbe dovuto scaturire il ritratto di un Paese percepito come una sorta di “palazzo del piacere di Kublai Khan”, Visioni d’Italia, per l’appunto, anche se quel titolo arriverà molti anni dopo.

    È da tempo che Calvino segue il lavoro di Fellini: in una lettera inviata a Eugenio Scalfari, segnala all’amico il talento di un giovane vignettista, quasi loro coetaneo, firma del “Marc’Aurelio”, il leggendario periodico umoristico degli anni Trenta e Quaranta: è il 1943, sette anni prima dell’esordio di quel giovane dietro la macchina da presa con Luci del varietà. Tra le lettere di Calvino a Scalfari nel 1943 e a Fellini nel 1963, da cui inizia la frequentazione ultra ventennale tra lo scrittore e il regista, ricorrono altri tre incroci, il primo dei quali poco, se non pochissimo, noto. Nel 1959 esce il Cavaliere inesistente, che chiude la Trilogia degli antenati: Fellini intende acquistare i diritti ma Calvino, che accoglie questo proposito con freddezza e una certa preoccupazione, sollecita il proprio agente a proporre a Ingmar Bergman l’adattamento. Alla fine né a Fellini sono ceduti i diritti né Bergman accetta la proposta e nel 1979 è Pino Zac a portare sul grande schermo il romanzo.

    Calvino non è neppure – e questo è il secondo incrocio – tra coloro che osannano La dolce vita, in particolare non lo convince l’episodio del suicidio/omicidio dell’intellettuale Steiner, giudicato “privo di qualsiasi verità e sensibilità”, una sequenza che tradisce “l’anti-intellettualismo programmatico e l’ossatura ideologica del film”. Infine, la terza occasione in cui i destini dei due si intrecciano prima dell’inizio della loro amicizia, è nei crediti di Boccaccio ’70, il film collettivo del 1962, dove Fellini dirige Le tentazioni del dottor Antonio, mentre Calvino è lo sceneggiatore di Renzo e Luciana, l’episodio di Mario Monicelli, tratto da un racconto dello stesso Calvino. Poi arriva, come detto, l’apprezzamento per e soprattutto, nel 1974, viene pubblicata Autobiografia di uno spettatore, la famosa prefazione ai Quattro film di Fellini, in cui Calvino da una parte ricostruisce l’educazione sentimentale e intellettuale a colpi di film americani di una generazione di provinciali, dall’altra ci lascia alcune mirabili intuizioni sul cinema di Fellini: sulla dialettica lontananza/vicinanza, Roma/provincia, sogno/nostalgia; sull’impatto dei fumetti non solo sulla formazione culturale di Fellini ma sul nucleo profondo della sua opera più matura; sulla “zona Masina”, ossia su quella dimensione dell’immaginario felliniano che si richiama al circo e alle sue figure.

    Tornando al progetto di trasposizione delle Fiabe italiane, e a quel poco che si sa: scelte le fiabe, alla fine saranno sette, il problema di Calvino e Fellini è come cucirle assieme, come legarle in un racconto unitario. Dovranno passare vent’anni dal loro primo incontro prima di trovare una soluzione: più che un fil rouge narrativo un espediente scenografico, una sorta di gioco dell’oca escogitato dallo stesso autore de Le città invisibili. Fellini in quel periodo – siamo nel 1983 – è sul set de E la nave va, e pensa di coinvolgere la squadra dei tecnici del film per la realizzazione di quell’ambientazione ludica. Purtroppo, da lì a due anni, Calvino scompare. Una delle pochissime tracce che restano di questo progetto sono le sottolineature e alcune note che compaiono nelle pagine dei due volumi di Fiabe italiane ritrovati nella biblioteca privata di Fellini (vedi foto), nello studio di Corso Italia. Oltre alle Fiabe, di Calvino Fellini possedeva altri 5 libri, tra cui Le cosmicomiche e I nostri antenati. All’uscita del già citato E la nave va, il quotidiano “Repubblica” ospita due recensioni del film: la stroncatura di Giorgio Bocca e la difesa a firma proprio di Calvino che del film coglie l’atmosfera da “giudizio universale a rallentatore”, quel sentimento di fine non di un mondo ma del mondo, e il legame con Amarcord: la Gloria N., il piroscafo protagonista del film del 1983, è una diretta discendente del transatlantico Rex, di quella sua fantastica apparizione su un mare nero, fatto di teli e di plastica, un mare povero, come è quello degli esuli, dei profughi, che “si porta dentro – come disse Sergio Zavoli – una dolce malinconia”.