Fratelli diversi: Fellini & Pasolini

Nel cinquantenario della morte di Pier Paolo Pasolini, un racconto in 3 puntate su intese, divergenze, film sognati e rime segrete tra due maestri del nostro cinema.

1/3 — L’incontro, Cabiria e La dolce vita

L’appuntamento è al bar Canova, in piazza del Popolo. Fellini ha appena finito di leggere Ragazzi di vita e vuole quella lingua viva nel film che sta preparando. Pasolini arriva con “quella sua faccetta impolverata, da proletario, da peso gallo, da pugile di borgata” — dirà poi Fellini. Il poeta di Casarsa, a sua volta, lo chiamerà “gatto sornione”. Scatta subito l’intesa. Salgono in macchina, escono da Roma. Sono le prime ricognizioni per Le notti di Cabiria: il regista racconta la storia mentre guida, lo scrittore, ascolta, annota, indica scorci.

Quelle uscite hanno un obiettivo: rintracciare la leggendaria “Bomba”, la grande prostituta che rimbalza come un mito urbano. Pasolini — bardo delle periferie e, di fatto, quasi location manager del film — trascina Fellini tra lotti e notti di borgata; asciuga il romanesco “da copione”, lo porta alla parlata vera. In sceneggiatura affiora il personaggio di Matilde, figura destinata a restare un’ombra, ma già seme di quella costellazione femminile che esploderà nella Saraghina di 8½: “donna enorme, di strana e animalesca bellezza…”.

Quasi a caldo, Pasolini rilegge il metodo de La strada. Qualcosa, in quel capolavoro, non lo convince: la realtà delle piazze e dei paesaggi non si amalgama del tutto con la stilizzazione di Gelsomina e del Matto. Il rischio, passando alle Notti di Cabiria, è ripetere l’attrito: ambiente realistico da un lato, personaggio “dickensiano” dall’altro. Da qui il suo programma da consulente ai dialoghi: alzare l’ambiente, abbassare Cabiria, cercare l’equilibrio tra humilis e sublimis. La sua mano si riconosce nei dialoghi delle due sequenze del Santuario del Divino Amore e del litigio delle prostitute alla Passeggiata Archeologica. Non solo nella lingua — un romanesco meno letterario, più mimetico — ma nella messa in scena: cautela sui tocchi coloristici, taglio degli episodi poco plausibili, inserti che restituiscano il morso del destino. L’attrito, qui, diventa metodo: serve a compattare i registri e a dare più peso al mondo attorno alla protagonista.

Le ricognizioni notturne diventano un rito. A un certo punto sale a bordo un terzo compagno: William Klein. È a Roma nel ’56 come assistente alla regia del film, è giovane ma si è già fatto un nome come fotografo. Porta uno sguardo che rifiuta il “momento perfetto”: grandangoli, mosso, riflessi, flash, corpi schiacciati dal vicino. Quell’occhio contagia il cantiere del film — notti, processioni, volti spinti al limite — e accelera la svolta modernista di Fellini. Quando il set si ferma, Klein continua a scattare: da quel vagabondare nasceranno il reportage e poi il libro Rome.

Ne La dolce vita Pasolini lavora defilato ma in modo concreto, soprattutto attorno alla figura di Steiner, l’intellettuale omicida-suicida: l’“idea Morandi” dice del suo gusto pittorico, mentre la tessitura resta felliniana; alcuni dialoghi portano la sua secchezza e decisivo fu anche il suo contributo nella scelta di Alain Cuny per quel ruolo, quando ancora Fellini pensava a Elio Vittorini e a Romolo Valli.

Poi Pasolini indossa i panni del critico e “incalza”. La dolce vita è per lui un film neodecadente: un titolo volutamente provocatorio per una storia immersa nella superficialità e nella corruzione. Le notti di Marcello sono viaggi al termine della notte della civiltà: dietro il luccichio c’è il vuoto, sì — ma è proprio Pasolini a spiegare il “fraintendimento”. In quell’umanità di cinici e vanitosi sopravvive una vitalità irresistibile, “piena di felicità d’essere”, che può far scambiare il film per un’epopea dell’età dorata. Un fraintendimento analogo toccherà venticinque anni dopo a un altro romanzo, a un altro tempo e un’altra città: Rimini di Pier Vittorio Tondelli.